“Fortunata” e “Napoli velata”: o del cinema troppico
Ho visto di recente due film di qualche tempo fa: “Napoli velata” di Opzetek e “Fortunata” di Castellitto.
Mi ha colpito il fattore che li accomuna: il troppismo (“troppismo” già ci si potrebbe provare, “troppico” del titolo in effetti non suona bene ma ho voluto mantenere la coerenza 😉 )
In Napoli velata la protagonista ha assistito all’omicidio del padre da parte della madre, poi al suicidio della madre, poi la zia (materna) le rivela di essere stata l’amante del padre, poi c’è uno zio (zio?) che muore improvvisamente per un’aranciata fredda ma forse è stato ucciso perchè sa qualcosa che non dovrebbe sapere, in quanto il bellissimo ragazzo con cui la protagonista ha passato una notte d’amore straordinaria è implicato in un delinquenziale traffico di opere d’arte per cui la nostra protagonista, che nella vita fa l’anatomo-patologa, se lo ritrova privo di occhi sul tavolo autoptico. Aggiungiamo che il tipo assassinato ha un fratello gemello che si scoprirà esistere solo nella fantasia della protagonista ma alla fine fine, con lo scambio di un oggetto, ci faranno venire il dubbio essere esistito davvero.
Aggiungiamo pure le bellezze di Napoli esibite ad ogni inquadratura ma che restano appiccicate alla storia senza diventarne parte: solo per dirne una, l’ultima scena si svolge dove è esposto il Cristo velato!
Fortunata è una giovane donna che corre facendo la parrucchiera a domicilio, ha avuto un padre drogato, adesso se la deve vedere con un ex marito violento ed ha per solo amico un coinquilino con disturbo bipolare alle prese con una madre ex attrice in preda a demenza senile. Ci si aggiunge uno psichiatra infantile di cui si innamora, che a freddo se ne esce con una botta da matto da burnout. Pure qui belle immagini ma messe lì perchè sono belle immagini, staccate dalla storia. La piccola figlia di Fortunata cade da una scala ma si salva, l’amico di Fortunata affoga per amore la madre nel fiume, si scopre che Fortunata ha assistito – forse facilitato: affogato in mare – alla morte del padre.
Entrambi i film ben girati, attori tutti bravi che riescono a dare qualche credibilità, ma tutto troppo, troppo, decisamente troppo. Che ci vuole a scrivere una sceneggiatura in cui ogni quarto d’ora c’è o un morto o una notizia di morto o un evento drammaticissimo, senza che mai se ne avverta la necessità rispetto alla storia raccontata?
Due storie costruite a tavolino col manuale del bravo scrittore o del bravo sceneggiatore. Irritanti.
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