E poi siamo arrivati alla fine (Joshua Ferris)
Scritto in prima persona plurale, ad intendere non qualche “tu ed io”, come nelle ultime pagine potrebbe sembrare – in realtà è rimasto un solo personaggio in scena – ma un gruppo di pubblicitari annoiati e strapagati. Preoccupati di licenziamenti incombenti, di mutui da pagare e in generale di status da mantenere, eppure tenacemente attaccati al chiacchiericcio da macchinetta del caffè, ore a discutere circa la legittimità di essersi qualcuno appropriato della sedia dell’ultimo licenziato e della perfidia organizzativa di aver reso individuabili le sedie con un numero di riconoscimento.
Anche un forse-cancro sarà oggetto di ipotesi, argomentazioni, lunghe dissertazioni circa le intenzioni della forse-malata e circa che cosa sia giusto e utile fare rispetto ad una forse-paura che impedisca alla forse-malata di farsi curare ma non potrebbe essere che la voce l’abbia messa in giro lei stessa per vedere come avremmo reagito o per prenderci in giro e così via di questo passo su ogni avvenìmento significativo o del tutto irrilevante sul quale quel micromondo si avventa ogni giorno.
All’inizio ho faticato un pochino ad entrare, ero un po’ annoiato da questi dibattiti sul (forse) niente, poi sono stato preso dalla progressiva forma che ciascuno dei personaggi, all’inizio quasi indistinti, veniva prendendo, dal divertimento delle situazioni alcune fra il tragico e l’esilarante, ammirato dalla capacità di far passare il lettore da uno stato emotivo ad un altro, e del tutto fluidamente, con una sola frase o anche una sola parola.
L’autore è fortemente ambivalente verso i suoi personaggi, non li ama ed è tuttavia indulgente, quanto basta a rendere il libro godibile fino alla fine.
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