Scene dalla vita di un villaggio (Amos Oz)
Sono solito fare un’orecchia in basso – so che qualcuno soffrirà di lesa librità – sulle pagine dove ho trovato una frase un concetto un insieme di suoni di parole che mi abbiano colpito.
(In basso, per distinguerle da quelle – orrore orrore – che faccio in alto, e che ovviamente a mano a mano richiudo anche se le cicatrici restano, per mantenere il segno di dove sono arrivato a leggere)
I libri di Amos Oz sono fra i più massacrati da questa mia abitudine. Può parlare di niente e la sua scrittura da sola vale la lettura.
“Scene dalla vita di un villaggio” non ha la grandezza epica di “Una storia d’amore e di tenebra”, e sono rimasto un po’ deluso dallo scoprire che non di un romanzo si tratta ma di alcuni racconti, il cui filo comune – tenue, proprio tenue – è dato dallo svolgersi tutti nello stesso luogo fisico.
Qualche piccolo particolare – un oggetto, il parente di qualcuno del racconto precedente, cose così – fa da trait d’union fra un racconto e l’altro. Bisogna anche scovarli, non sempre ne ho avuto voglia e perciò sulla fiducia ho deciso che se avessi letto con più attenzione li avrei trovati, perchè ci dovevano essere. Magari non ci sono. Non sempre.
A distanza di poche settimane dalla lettura ne ricordo poco… una sensazione di polvere, di indefinitezza, di situazioni appese, personaggi fluttuanti.
Insomma: non scopriremo mai se davvero qualcuno scava di notte sotto alla casa, e nemmeno ci verrà proposta una qualche ipotesi sul perchè qualcuno dovrebbe farlo.
Queste, le righe finali:
“…. i discorsi non servono a niente, comincia un altro giorno torrido e bisogna andare a lavorare. Chi può lavorare, lavori, fatichi e taccia. Chi non ce la fa più, per favore, che si degni di morire. Chiusa la faccenda”
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