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Tempo di uccidere (Ennio Flaiano)

Una tragedia si compirà, altre saranno sfiorate, e non si mai bene come evitate, senza che il protagonista sembri esserne mai del tutto consapevole.

Un camion rovesciato su una strada polverosa dell’Etiopia degli anni trenta, quelli dell’Italia ha un impero.

Il giovane tenente, dopo aver aspettato che passi qualche camion, si stufa, lascia lì il soldato che lo accompagnava e si avvia ad attraversare una valle che lo porterà dove corre una strada più frequentata.

Il protagonista potrebbe essere uno dei personaggi di Joseph Roth – di altra epoca e altre ambientazioni – con i quali sembra avere in comune una cupa neghittosità che lo porta a non stare mai davvero in contatto con il mondo che lo circonda, a sfidarlo e a ritrarsene ma sempre in modi che appaiono casuali anche quando sembrano meditati

Una tragedia si compirà, altre saranno sfiorate e non si mai bene come evitate, senza che il protagonista sembri essere consapevole di che cosa gli succede intorno e che cosa producono le sue azioni.

Così vaga, fra boscaglie infide di iene e fetore di carcasse di muli, fino a una città portuale dove le vie d’uscita non si trovano.
Tornerà alla base? La sua assenza è stata notata? Sarà sanzionata?
Tutto scorre con sullo sfondo le atrocità verso i guerrieri africani, le piccolezze quotidiane di chi si trova a esercitare un briciolo di potere lontano dall’esistenza di fame in patria.
La vicenda del protagonista sembra parallela e in qualche misura simbolica rispetto a quella dell’avventura africana di un esercito comandato da cialtroni tanto male equipaggiati quanto feroci.

Alla fine cammina a fianco di un sottotenente e sente l’odore della pomata per capelli di quello: “... dal profumo delicato, infantile, ma il caldo la stava inacidendo. Una pessima pomata, che il caldo di quella valle faceva dolciastra, putrida di fiori lungamente marciti, un fiato velenoso. Affrettai il passo, ma la scia di quel fetore mi precedeva“.

Queste, sopra, le ultime parole del romanzo, che ne restituiscono in pieno l’atmosfera.

Diceria dell’untore (G. Bufalino)

Una scrittura unica, un gorgo che ti attira e non ti lascia.

La scrittura.
Per leggere un libro di Bufalino bisogna innamorarsi della sua scrittura.
Me ne sono innamorato con “Le menzogne della notte”, ed ecco qui il più famoso “Diceria dell’untore”.
È una storia, se vogliamo banale, di un amore e di competizione per una donna all’interno di un sanatorio per malati di tubercolosi. Qualcuno morirà, qualcuno è già morto e non lo sa, o lo sa, qualcuno si salverà.

Qualche assaggio, perchè non riuscirei a renderne la grandezza.

“Si scambiavano frantumi di suono, una poltiglia di sillabe balbe rimasticate in eterno da mascelle senili”

Il sole sbocca dai tetti, grondante tuorlo, orrido mestruo del cielo. Il soffio che ne nasce non fa nemmeno sudare, ma stringe dentro un pugno il cuore, scaglia le rondini a rompersi contro la sciara, dovunque fa mulinello, e le illude, un inesistente palpito d’acqua.”

“Avevo più letto libri che vissuto giorni, nel mio così fuggitivo, così inefficace passaggio lungo le stradde degli uomini.”

“Voglio cercarmi un bambino per la strada… Gli darò uno schiaffo, gli dirò un’oscenità, una bestemmia di quelle che non si scordano. Voglio durare cinquant’anni ancora dentro di lui.”

“… nei miliardi di secoli passati e futuri io non so trovare evento più importante della mia morte. E tutte le carneficine e derive di continenti e scoppi di stelle sono soltanto canzonetta e commedia al confronto di questo minuscolo e irripetibile cataclisma, la morte di Marta. Cosa non farei per ritardarlo di un attimo. La puttana, la spia, l’aguzzina. E chissà che non l’abbia già fatto.”

In generale, non amo questo tipo di scrittura ridondante, non vorrei mai scrivere così. Ma dalla scittura di Bufalino sono affascinato, come da un gorgo che ti attira e non ti lascia.

Il libro varrebbe la pena averlo, per chiunque scriva, anche solo per l’appendice finale, aggiunta in questa edizione: c’è l’indice dei “Temi”, fatto dall’autore, c’è la spiegazione delle scelte di scrittura, ci sono note quasi per ogni pagina. Non per caso lo cominciò a scrivere negli anni cinquanta e fu pubblicato nel 1981. Per me, un grande della nostra letteratura.

Le affinità elettive (Johann W. Goethe)

Mi sento come il Fantozzi del cineforum: questo libro è una palla mostruosa.

Qui applausi zero, e se qualcuno mi leggesse mi massacrerebbe per l’impertinenza di dire male di uno dei libri più letti al mondo e di più duraturo successo.

Tant’è, pazienza. Ma questi quattro che passano la vita ad aggiustare siepi e piegare colline per ottenere l’ambiente ottimale per le loro viste sono tanticchia insopportabili, anche perchè alcuni passaggi emotivi fondamentali sembrano dipendere proprio da qualche maggiore o minore interesse o passione o attitudine a questi giardinaggi.

Un abisso da carne e sangue che si respirano in Anna Karenina.

La conclusione tragica poi, dopo aver passato metà libro a convincerci della quasi ineluttabilità – addirittura per chimica – del tradimento sentimentale, sembra una vendetta moralistica dell’autore sui protagonisti.

Almeno Edipo era tragico perchè punito senza colpa: costoro sono invece puniti dal destino per aver scelto il loro destino.

Pollice verso, e chi se ne importa se è quasi unanimemente considerato un capolavoro evergreen.

Anna Karenina (Lev Tolstoi)

Ce l’ho fatta, a leggerlo. Tante volte avevo pensato di farlo, sempre avevo desistito, fondamentalmente per un pregiudizio rispetto ai “russi pallosi”.

Ho letto poco dei russi: il Dostoevskij di Delitto e castigo e di Memorie dal sottosuolo, il Tolstoi de La morte di Ivan Il’ič, niente altro.

In comune hanno, mi pare, lo scavare fin nelle pieghe più profonde delle contraddizioni umane.

Oggi – più volte celebrata la “fine del romanzo” – uno scrittore tende a far partecipare il lettore alla costruzione delle personalità dei personaggi che propone, cerca di far dedurre il sentire dalle azioni, dai tic, dai dialoghi, difficilmente “racconta” direttamente i sentimenti che attraversano e avvolgono e sconvolgono i protagonisti.

Questo fa Tolstoi. Sarà pure un modo datato di scrivere, resta appassionante dopo quasi centocinquant’anni.

Alcune pagine, anche di personaggi minori, restano memorabili: in due pagine si passa dall’avvicinamento di un uomo e una donna che passeggiano soli ed entrambi sanno che adesso o mai più e quando è quasi adesso basta una banale interruzione esterna per passare al mai più. Nella pace di entrambi, che si stavano avventurando dove non erano certi di potercela fare.

Anna Karenina, invece, e Vronskij, si buttano nell’adesso, lo vivono a dispetto delle convenzioni e delle convenienze. La fragilità di Anna, che ad un certo punto le fa ingigantire all’iperbole alcuni timori sull’amato, la porterà al suicidio, devastando le vite intorno.

Il mondo dei nobili russi fra Mosca e Pietroburgo, fatto di salotti, maldicenze, piccoli intrighi, fidanzamenti, amanti, non sembra tanto diverso da quello della Vienna di Joseph Roth, anche per la totale indifferenza rispetto alle montagne di debiti da cui tanti sono sommersi e dai quali prima o poi saranno travolti.

Ciò che mi ha colpito di più e – non so bene come dirlo, trattandosi di un capolavoro univeralmente riconosciuto – convinto di meno, sono stati i passaggi bruschi, come moti dell’animo del tutto incontrollabili, che quasi ogni personaggio mostra, dagli abissi alle stelle, o viceversa, e poi in direzione opposta. Senza che fattori esterni li provochino, come se l’animo umano (russo?) fosse incapace di autodeterminarsi e preda di un determinismo incontrollabile.

Alcune vicende “di coppia” sono gustose per quanto ancora attualissime, come quando lui vorrebbe andare da una parte ma non ci va perchè a lei dispiacerebbe e però cova risentimento anche se lei lo ha espressamente “autorizzato”, e infine decide di andare ed ora è lei a covare risentimento perchè è vero che gli ho detto che mi avrebbe fatto piacere visto che a lui faceva piacere ma lui avrebbe dovuto capire che mi sarebbe mancato e ne avrei sofferto.

Cos’altro? Levin attaccato alla terra e alla concretezza, incapace di dominarsi e mantenere le buone maniere verso un giovane che esprime educati apprezzamenti verso la moglie Kitty appena – e faticosamente – conquistata. E poi si pente di aver dubitato e le chiede perdono piangente e il giorno dopo caccia di casa il giovane.

“Dal canto suo, nonostante quanto aveva desiderato fosse diventato realtà in ogni sua piega, Vronskij non avrebbe potuto dirsi del tutto felice… e si scopriva a comprendere quanto sbaglia chi confida che la felicità venga, appunto, dall’avverarsi dei desideri.”

Ferito a morte (Raffaele La Capria)

Riletto almeno per la terza volta, resta un piacere sopraffino.
Un gruppo di ragazzi di buone famiglie napoletane fra la fine della guerra e gli anni cinquanta, fra mare sole pesca subacquea e ragazze e il circolo nautico dove padri e zii e nonni si sfidano in epiche partite che durano giorni ed in cui possono giocarsi tutto.
E’ una storia di maschi, le donne sono di sfondo, anche se non si tratta di virilità quanto di cameratismo, amicizia, eppure i sentimenti mai sono esposti, sempre sfumati, tutti intorno all’inattualità del protagonista, Massimo, che non riesce nè a sentirsi parte nè a staccarsi.
L’incipit – la spigola mancata perchè l’arpione parte un attimo dopo e Carla mancata non si sa perchè – è fra i più belli io dico della letteratura mondiale.
Non conosco se non superficialmente Napoli, non ho vissuto quegli anni cinquanta, eppure è come se l’aria di quel mondo mi fosse diventata familiare, e mi sento e affezionato e lontano da Ninì, Cocò, Sasà…
Il romanzo è pervaso da un senso di struggimento, in una pagina, forse una e mezza, Glauco, tornato da avventurose ricerche d’oro in Venezuela e traffici d’armi con Cuba, distrugge l’immaginario incantato dei Caraibi mentre sorseggia un caffè sulla piazzetta, dove Massimo inutilmente cerca di rintracciare il fratello Ninì, il più brillante della compagnia, il più ricercato, che sta prendendo il posto dell’inarrivabile Sasà, del quale è destinato a condividere anche l’inevitabile declino.
Infine: la scrittura. Ricca, elegante, complessa quanto scorrevole, che ti fa arrivare l’odore del mare e il rumore dei passi sulla piazzetta di Capri, capace di quegli sviamenti temporali di cui oggi troppi fanno sfoggio senza sapienza.
In realtà non so spiegare fino in fondo perchè è un libro che, senza che ciò sia in alcun modo cercato, prende il cuore di chi lo legge.

Sonata a Kreutzer (Lev Tolstoi)

Chi non ha, almeno una volta nella vita, sognato di uccidere la moglie (o il marito, fidanzato/a, etc)? Magari ne ha solo desiderato la morte, per non dover prendere la decisione di lasciarlo/a?

Sonata a Kreutzer è la storia di un uxoricidio effettivo raccontato dall’assassino – assolto perchè il tribunale riconoscerà che aveva agito per motivi di onore – ad un passeggero incontrato casualmente in treno.

Ho letto abbastanza sconcertato: tutta la prima parte è un concentrato di luoghi comuni sul matrimonio tomba dell’amore e sulla misogenia: “…chi fa la prostituta per un periodo di tempo limitato viene disprezzata da tutti, e chi lo fa per periodi più lunghi gode del massimo rispetto.” Vero è che non conosco i costumi russi del periodo, e quindi non sono in grado di valutare se quelli che oggi mi appaiono luoghi comuni allora potessero essere letti come concetti  avanzati.

Un primo effetto, comunque, è un sospiro di sollievo: un po’ di strada verso un mondo più civile l’abbiamo fatta. Poi mi è venuto un dubbio: forse Tolstoi non si identifica con il protagonista, e lo vuole ridicolizzare. Dal tono dell’insieme mi pare poco probabile, e l’impressione che mi resta è quella di un alter ego che sfoga nella scrittura ciò che non mette in pratica per motivi morali, sociali o che so io.

Dunque, la prima parte è la descrizione dei disastri del matrimonio.

Nella seconda, inopinatamente, irrompe invece una gelosia – che a me pare tanto irragionevole quanto lontano affettivamente il protagonosta si sente dalla moglie – che porterà alla tragedia finale. Tale irragionevolezza mi ha fatto considerare l’ipotesi che il tema del racconto sia non tanto la donna e il matrimonio quanto dove possono portare sentimenti non controllati dalla ragione.

Forse in queste diverse, tutte possibili chiavi di lettura, sta la grandezza del racconto, che mi sono goduto anche per alcuni particolari perfidi, come, nelle pagine finali: la preoccupazione del marito assassino, mentre sta sventrando la moglie, di non risultare ridicolo se corresse dietro al rivale a piedi scalzi e, poco dopo, mentre medita se usare contro di se la pistola, l’attenzione ad infilarsi almeno le pantofole quando lo avvertono che la polizia sta arrivando.  

Racconti di Cechov

Finito di leggere Le Carrè, privo stavolta di quel piccolo capitale di libri nuovi che di solito mantengo e reintegro a mano a mano, mi aggiro per  le mensole e scovo una raccolta (con Repubblica di qualche anno fa) di racconti di Cechov.

Confesso la mia difficoltà con i russi: Memorie del sottosuolo e Delitto e castigo letti di recente, La morte di Ivan Il’ic… mi pare nient’altro. Il ricordo che ne ho, soprattutto per  Dostoevskij, è di pesantezza per questa libidine di scavo interiore e per il moralismo di fondo che mi è sembrato di percepire.

Cechov è stato invece una bella scoperta: distacco pur nella partecipazione alle vicende dei personaggi, comunque mai giudicati, leggerezza di scrittura, finali a sospensione.

Perciò, ho scovato “Il gabbiano” – regia per la tv di Bellocchio – e presto me lo guarderò.