Sono Stefano De Sanctis, counselor dal 1994, attualmente mi occupo in prevalenza di supervisione a counselor, presso scuole di counseling e in gruppi di supervisione on-line. In questa pagina presento alcuni podcast su vari temi che mi è capitato di affrontare nel corso degli incontri di supervisione.
Se vi sembreranno interessanti, come fare in modo di non perdervi i prossimi?
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— Invece tu, e non è che se lo strilli lo sussurri scuoti i ricci strabuzzi gli occhi cambia tanto, invece tu voglio che godi voglio che godi voglio che godi!
— Embè?
— Stavo pure godendo. Insomma stavo venendo, che godere è un’altra cosa, e mi hai fatto venire infelicitato da quelle i.
— Mi stai prendendo per il culo o dici sul serio?
— Tu non puoi capire il mio dolore, vero? Non te ne posso fare una colpa, mi rendo conto.
— Dai amò, ma non t’è piaciuto?
— Ma sì che mi è piaciuto, come fa a non piacermi con tutto ‘sto bendiddio? Mi è piaciuto, sta tranquilla. Vieni qui.
Mi si rannicchia sul fianco, la testa fra omero e clavicola.
Sospira.
Penso sei proprio bella, sei tanta, come si fa?
Ma non credo che correrò una seconda volta questi rischi sintattici.
http://librilettiscritti.it/website/wp-content/uploads/2021/07/logo-2.png00Stefanohttp://librilettiscritti.it/website/wp-content/uploads/2021/07/logo-2.pngStefano2022-03-26 14:41:002022-04-26 15:30:03Amore e sintassi
Si rannicchiò sotto al piumone e assaporò, prima di addormentarsi, il piacere tenue della fine.
Rivolse pensieri benevoli alle persone care.
Si vide sulla panchina di legno imbullonata sulla piattaforma di cemento, di fronte all’isola, al sole freddo di una mattina di tramontana che insisteva a sferzare un cielo ormai pulito.
Dormì contento pur sapendo che, probabilmente, al mattino successivo, come tutte le mattine, si sarebbe svegliato.
I preliminari non erano cambiati: parcheggio lontano, lunga passeggiata a passo svelto verso i cancelli, colori e suoni di trombette tutt’intorno, entrata dal lato in ombra.
Lungo la scalinata faceva quasi freddo ed era scuro. Quando uscì di nuovo al sole fece un grosso respiro a pieni polmoni e si guardò intorno soddisfatto: il prato verde aveva mantenuto il suo fascino.
La sera prima aveva litigato ferocemente con la sua compagna. Nessuna scenata, per carità. Poche parole secche tra i denti. Tirate dall’uno all’altra come freccette intinte di curaro. Niente pugni sul tavolo né piatti per terra: stilettate.
Effetto bomba N, lo chiamava lei. La radiazione che passa dentro sottile, lascia il segno che lì per lì pare e non pare e dopo un mese ti tocca un’emorragia interna o l’inizio di un processo canceroso per modifiche cellulari.
A letto non si erano parlati. Ognuno aveva aperto il proprio romanzo, spento la propria luce, dormito di schiena.
La mattina il massimo della confidenza era stata mi passi il burro per favore e la rinuncia alla visita comune alla galleria d’arte moderna, da tempo programmata, era sembrata ad entrambi scontata.
Lei era andata a pranzo dai suoi genitori. Lui aveva accampato un’emicrania a cui lei aveva finto di credere e si era cotto una fettina, accompagnata da un pomodoro condito con olio e sale.
Aveva deciso d’impulso di andare allo stadio.
Ora c’era. Non poté fare a meno di provare un brivido quando un boato accolse le maglie rosse e quelle bianche che uscivano dagli spogliatoi, affiancate.
Le bandiere sventolavano tutt’intorno. Nella scalinata sotto di lui tre signore di una certa età tagliavano cocomeri per il resto della comitiva. Gliene offrirono una fetta che accettò volentieri, lusingato da un rapporto umano vero, per quanto fugace e superficiale. Gli sarebbe piaciuto ricambiare ma non seppe come.
La partita era bella, con cambiamenti di fronte frequenti e tiri pericolosi da entrambe le parti.
Si sentiva preso più di quanto si aspettasse o si volesse concedere.
Si ritrovò in piedi quando, dopo una rapida azione in verticale, il giovane attaccante della squadra di casa si trovò solo davanti all’ultimo difensore, fece una finta a destra e schizzò sulla sinistra avventandosi verso l’area ormai vuota.
E si ritrovò col pugno destro alzato, in un gesto che aveva avuto altri sapori, quando il pallone calciato violentemente gonfiò la rete dalla parte opposta a quella dov’era accorso il portiere.
«Gooooooolllll!»
Il grido gli eruppe dal fondo delle budella.
Si risiedette e si guardò intorno sconcertato. Accolse la bellezza di non doversi preoccupare di controllare le proprie emozioni, elementari che fossero.
Alla sua sinistra, nel centro della curva, notò un ondeggiamento. Un gruppetto di tre o quattro ragazzi correva in fila indiana cercando di scansare i corpi accalcati. Un gruppo più folto – saranno stati una decina – li inseguiva a breve distanza.
Sfilarono sotto di lui mentre le file si aprivano per far passare inseguiti e inseguitori.
Sarebbe stato facile bloccare i fuggiaschi, unici sostenitori della squadra di fuori in mezzo a uno stadio tutto di casa, ma una forma di fair play della folla favoriva invece il passaggio.
Incitando però gli inseguitori.
I fuggitivi erano ormai quasi arrivati alla scalinata larga in fondo alla quale stazionava il gruppo di carabinieri del servizio d’ordine – e quindi la salvezza – quando l’ultimo cadde. Il penultimo si fermò un attimo, si girò, fece un passo indietro, aiutò il compagno a rialzarsi e si ributtò a capofitto per le scale.
Il ragazzo caduto, rialzatosi, gli corse dietro. Qualcuno degli spettatori, meno dotato di fair play, lo sgambettò, e il breve vantaggio che aveva sugli inseguitori, già dimezzato dalla precedente caduta, fu consumato.
Gli furono addosso. Lo picchiarono tutti in pochi attimi e si dispersero prima che i carabinieri intervenissero.
Il ragazzo zoppicava; dal naso rotto colava sangue in quantità. La maglietta stracciata. Piangeva a singhiozzi incontenibili.
Lui si rivolse di nuovo al campo.
Intanto guardava sé da fuori: non si era soffermato un istante di troppo sulla scena di violenza? Non aveva oltrepassato la sottile soglia dove il giusto orrore e lo sdegno diventano compiacimento? Forse sadismo?
Si riscosse perché lo stadio era ammutolito.
Avevano pareggiato. Ora gli altri si stavano abbracciando in campo mentre la squadra di casa riportò mestamente la palla al centro.
Solo un attimo, e i cori di sostegno ripresero.
Anche lui si mise a cantare. Un sottile senso di liberazione per – finalmente! – l’irresponsabilità garantita dalla folla.
Non come alle manifestazioni politiche, dove si sentiva parte di qualcosa.
Qui la folla era la mediazione con l’universale senza che lui fosse tenuto a farne parte. Decise che, una volta a casa, questa considerazione avrebbe meritato un approfondimento.
Dal profondo dei polmoni gli uscì un possente «olé», mentre il pugno destro saettava di nuovo al cielo, al terzo passaggio di seguito della sua squadra, mentre gli avversari si affannavano a rincorrere il pallone.
L’«olé» solitario fu ripreso e amplificato. Gli parve che qualcuno vicino ammiccasse verso di lui con complicità solidale.
La partita scorreva sempre interessante e con vicende alterne. Non sapendo fischiare, strillò acutamente quando un difensore avversario abbatté il difensore della sua squadra che, sfuggito sulla fascia laterale, si apprestava a centrare.
Era sempre più preso. La squadra di casa sembrava però ormai stanca mentre gli avversari ora controllavano il gioco.
Tuttavia l’incitamento della folla spingeva i giocatori di casa ad attaccare.
Un difensore della squadra avversaria, rilanciando via, pescò vicino al centro campo l’odiatissimo argentino, fin’allora in ombra. Questi controllò la palla con la sicurezza del campione e con una finta di corpo mandò per terra il suo avversario diretto.
C’era da percorrere tutta la metà campo ma la strada verso la porta era libera. Scattò velocissimo sulla sinistra puntando verso l’area. Con le larghe falcate che l’avevano reso famoso, l’ultimo difensore – ormai avanti con gli anni ma vera e propria bandiera della squadra di casa – converse verso l’argentino ma, quando sembrò averlo raggiunto, quello aumentò incredibilmente la velocità, cosicché il difensore, gettatosi a corpo morto con l’ultimo fiato rimasto, riuscì solo a strappargli un pezzo di maglia.
L’argentino, seppure sbilanciato, continuò la sua corsa.
L’intervento dell’anziano difensore aveva tuttavia concesso al biondo centrale della squadra di casa, che accorreva affannosamente, l’attimo sufficiente ad arrivare sull’argentino.
Il tacco piombò sull’esterno della gamba d’appoggio dell’argentino mentre questi era ormai pronto al tiro.
Nello stadio ammutolito si sentì distintamente il crac del ginocchio spezzato.
Ammazzalooooooooo!
Aveva urlato con tutte le sue forze, mentre lo stadio tirava un sospiro di sollievo perché il fallo era avvenuto poco prima dell’area e dunque non c’era il rischio di un rigore.
La partita finì uno a uno.
Fece all’indietro lo stesso percorso, fino al lontano parcheggio, dove qualcuno gli aveva sfilato i tergicristalli.
Impiegò la normale ora e mezza a districarsi nel traffico incarognito.
A casa non c’era ancora nessuno. Un messaggio nella segreteria telefonica diceva che la sua compagna era andata al cinema con amici comuni.
Si fece una doccia per scaricarsi e levarsi di dosso gli olezzi della folla.
Abbassò le serrande. Nella penombra si soffermò a scegliere nella nutrita discoteca. Optò per il Triplo concerto.
Si sedette sulla poltrona preferita e si lasciò andare.
Quando sentì arrivare l’ascensore e armeggiare con le chiavi, chiuse gli occhi.
Avrebbe finto di essersi addormentato con Beethoven.
Ieri sera – tu stavi riparando la moto – sono scesa al mare. La spiaggia era piena di meduse in agonia. Come è possibile, tutte così all’improvviso? Fino a ieri non se n’era vista una! E che ci fanno, qui, le meduse, in un’isoletta della Grecia? Ma tu mi stai a sentire?
Rispondi sì certo e mi chiedi il piccolo coltello di bambù per spalmare il burro. Te lo passo.
Ho avuto voglia di piangere, vedendole così, senza più colore, rattrappite di sabbia. Ne ho toccata una con un pezzo di canna: era dura, non leggera come le vedi librarsi nell’acqua. L’ho sentita gemere, al tocco della canna.
Lo so, lo so che le meduse non hanno voce, ma quella stava morendo, e il suo dolore mi ha trapassato.
Tu continui con gusto la colazione. Mi dici che le meduse sono prive di sensibilità, che non possono soffrire. Io queste cose le so. Tu sai che io le so.
Ed ecco che la vedo: luminosa, sovrascritta a lettere nere su un arcobaleno.
Dalla faccia che fai – una vaga smorfia interrogativa – capisco che la mia espressione dev’esserti ben strana.
È la parola sciupare, quella che copre l’arcobaleno. La vedo solo io, lo so.
Posso smettere di sciupare. Semplicemente.
Spero che le meduse fossero morte tanto tempo prima di arrivare sulla spiaggia. Questo è un pensiero che mi consolerebbe. Avresti potuto esprimerlo tu. Spero che siano morte di morte naturale e nel loro elemento noto. Che non siano morte tra spasimi sulle sabbie ostili, mentre l’irraggiungibile salvezza delle maree le lambisce e si allontana, senza pietà.
Non parlo più con te. Sono tornata ai soliloqui interni. Ma adesso questo non mi preoccupa più.
Sarebbe uno spreco anche la scenata che ti aspetti.
Infatti: eccoti lì già pronto a sfoderare il giornale.
So bene che stai riflettendo su quella che chiami la mia eccessiva emotività, priva di basi logiche.
Ho smesso di aspettarmi una reazione che sia diversa dal tuo soave distacco, dal quel grigio perbenismo, dalla tua brillante intelligenza al servizio del piattume.
Sono ingiusta. Non è stato solo questo.
Eh sì, ho pensato proprio “non è stato solo questo”: al participio passato.
A volte mi torna nel cuore uno sbuffo di affetto per la tua pulizia, la tua serietà, la tua dolce indecisione.
Non ho mai sentito il tuo desiderio.
Mi sarebbe piaciuto, sentirlo. Mi avrebbe turbata. Mi avrebbe dato calore. Mi avrebbe fatto sentire viva. Mi avrebbe spaventata.
C’è uno squarcio, nel mio ventre, dove ti avrei voluto, dove tu non sei mai voluto entrare. L’hai lasciato avvizzire.
Come abbiamo potuto, per tanti anni?
E adesso, di questo vuoto che è a tua misura, che ne faccio?
Una sete inestinguibile.
Voglio diventare una medusa, nuotare luminescente tra i flutti, brillare nella notte argentata, rotolarmi con le onde.
Posso farlo, se l’aria diventa il mio mare.
Ma sono tornati. Sono tornati i granelli di sabbia. Quelli che mi impediscono di scivolare nel mare.
Toccava a lui. Si meravigliò di non sentirsi emozionato. Eppure, per la prima volta avrebbe letto un suo racconto in pubblico. Era stato molto incerto: la lettura è un atto individuale, non era una bestemmia renderlo pubblico? Sperava che avrebbero apprezzato la prosa elegante, la consecutio sempre a modino, qualche impercettibile sbavatura sintattica a testimoniare la capacità di piegare la lingua allo stile. Lo aveva preceduto una ragazza inglese segaligna, con una poesia oscura, densa di morte: budella appese come lenzuola ad asciugare al vento del dolore. Toccava a lui. Aveva preferito restare seduto, dovette aggiustare il microfono. Si versò un mezzo bicchiere d’acqua. Cercò tra il pubblico il sostegno del volto noto di qualche amico. Cominciò a leggere. Fu piacevolmente sorpreso nell’ascoltare la propria voce: espressiva, con i giusti accenti, con gli alti e i bassi e i brevi e i lunghi necessari. Si era fatto silenzio. Il pubblico era attento. Qualche bisbiglio iniziale era scomparso sotto ai cubi a forma di pietra antica che facevano da sedili. Un paio di pagine, per un incontro fortuito in ascensore, ambiguo di gesti e di pensieri. Anche i due personaggi del racconto vedevano sé stessi da fuori, mentre l’ascensore saliva i venticinque piani previsti dall’autore. Si accorse di stare anche altrove. Ricordò esattamente la prima volta in cui era stato consapevole di essere presente e, allo stesso tempo, di guardarsi da fuori.
* * * * *
Era arrivato in una stanza dove tutti sedevano lungo le pareti. Parlavano a bassa voce. Qualcuno piangeva. Alla casa degli zii poco fuori città dove, per vicende economiche familiari – un fallimento aziendale – viveva da qualche mese, erano andati a prenderlo i due cugini più grandi, tutti compresi – appena uno dei due aveva l’età della patente – nell’adempiere quel compito da adulti. Aveva intuito qualcosa di oscuro: già la mattina lo zio – si era durante le vacanze di natale – era inusualmente tornato a casa poco dopo essere uscito ed aveva parlato con voce concitata, dopo essersi appartato con la zia.
* * * * *
La lettura del racconto terminò. Ebbe piacere degli applausi, che gli parvero convinti, e fu contento del sorriso di una sconosciuta. Avrebbe dovuto, come da scaletta, passare il microfono al vicino di destra. Si rese conto dello sconcerto degli amici organizzatori quando, invece, attaccò a leggere un altro racconto, previsto per la seconda parte della serata, dopo la pausa. Trattava della giornata allo stadio di un intellettualino, di quelli che non riescono a stare in pieno nemmeno con le proprie emozioni più terra terra senza infiorettarle di ragionamenti intelligenti.
* * * * *
Per quanto, da grande, lo avesse chiesto a tutti, non era più riuscito a ricostruire chi infine gli avesse detto che quel giorno, un colpo al cuore, zac, era morto suo padre. Forse, non glielo aveva mai detto nessuno. Forse è una delle cose che non sta bene dire. Meglio, meno doloroso sottintenderla, dovevano aver pensato. Per non turbarlo troppo. Per il suo bene, evidentemente. Insomma, era stata quella volta in quella stanza con tutti seduti sulle seggiole lungo i muri, nella parte dei parenti e amici addolorati, e sua madre già vestita a lutto, nella parte della vedova, che si era visto così, nella parte dell’orfano undicenne frastornato, privo di lacrime che non fossero di condiscendenza alle aspettative del pubblico.
* * * * *
Il racconto sullo stadio conteneva qualche spunto drammatizzabile, come alcune imprecazioni e urla – da stadio, appunto – che si stupì di rendere con insospettate doti istrioniche. Piacque abbastanza anche questo. Non si erano annoiati, nonostante i due racconti di seguito.
* * * * *
Era morto fra natale e capodanno. Per quale ragione, si chiese solo adesso, non avevano passato il natale insieme? E bastava, il dolore, a dare ragione che non fosse stata la madre ad andarlo a prendere, per dirglielo?
* * * * *
Si guardò intorno. Poggiò i fogli sul tavolo, bevve direttamente dalla bottiglia l’ultimo sorso rimasto. Era tempo di lasciare la postazione ad altre letture. Si sedette invece di nuovo. Si ritrovò, per non esibire la commozione, a stringere con tutte le forze che aveva i braccioli della poltroncina, fino a schiarire – private dell’afflusso di sangue – nocche e falangi. Fu un attimo. Si alzò, ricevette pure un piccolo applauso di incoraggiamento.
Distesi, rilassati nei vostri bei camicioni colorati.
Bottoni di madreperla, su dal collo giù giù fino alle caviglie, riflettono spettri solari sfaccettati.
Corpi ancora informi.
Babbucce dorate coprono i vostri piedi.
Giochi di luci sapienti tengono in ombra i vostri visi.
Questo siete, cari miei: masse informi, che attendono di essere modellate.
Da me.
Sì, mi sento in vena, adesso.
Se mi stendessi tra voi, con le mie babbucce dorate, la testa nascosta, potrei sembrare uno di voi?
Si noterebbero i miei seni.
Potremmo poggiare il ventre a terra.
Si capirebbe la curva diversa delle mie natiche.
Di lato allora.
La mia vita sottile e i miei fianchi tondi.
No, miei carini, non potrei essere uno di voi.
Ma eccomi qui tra voi.
Per il vostro piacere.
Ah, sì, è tutto pronto.
Dalla voliera fantasmagorie di piume svolazzanti.
Ancelle leggiadre svuotano brocche di acqua di rose che scivola in rivoli, tra felci e papiri, alla fontana centrale che la restituisce in zampilli odorosi.
Essenze e incensi fumigano e si disperdono dalle grate sul pavimento, finemente lavorate in oro massiccio.
Siete pronti, miei adorati?
Non siate impazienti.
Mi sembrate adeguati, voi di stasera.
Non vedo muscoli trasalire.
Sotto i vostri sudari immagino corpi intonati senza rigidità.
Tensione soltanto sotto pelle.
Attesa.
Mie dolcezze.
Miei stupendi.
Sono presto da voi.
Voglio cambiare il mio camicione, non voglio che sia eguale ai vostri.
Ma come farò a indossare la mia seta pieghettata senza mostrarvi il mio corpo, qui, in mezzo a voi?
Non conosco i vostri visi. Posso immaginare i vostri occhi chiusi.
Le ancelle mi aiuteranno tra le felci, vicino alla fontana, al centro.
Lontana e vicina a tutti allo stesso modo.
Imparziale.
Oh!
La tua babbuccia si è mossa!
T’ho visto!
Sarai l’ultimo, stasera.
Sì ancelle, così, fate scendere la tunica, spalmatemi d’unguento e calate la seta sottile, con movimenti sincroni delle vostre mani sapienti, così che la porzione del mio corpo via via scoperta possa essere soltanto immaginata.
Sono pronta.
Eccomi a voi.
Ti voglio far sentire l’odore della mia seta.
Basterà un lembo della mia larga manica a sfiorare il tuo bel viso ignoto.
A te poggerò una mano sul ginocchio e smuoverò circolarmente la rotula, pian pianino.
E tu.
Voglio dedicarmi un poco anche a te.
Questo bottone, il terzo sotto la gola. E quello sotto. Oh, il tuo petto è glabro e appena ottonato.
Posso esplorare orizzontalmente.
Verso il fianco.
La tua pelle non è più liscia. Eppure non fa freddo.
È la mia mano?
La ritiro. Perdonami se uscendo ti ho scoperto l’altro fianco.
Anche tu.
Mi inginocchierò ai tuoi piedi.
Non sentirai il mio profumo.
Non mi vedrai.
Allargherò appena i tuoi piedi tra loro.
Solleverò un lembo della tua camicia.
Con entrambe le mani agguanterò la stoffa dorata che copre il tuo tallone.
Resterò con le dita sotto la trama, e la arrovescerò lentamente, fino a sfilare la babbuccia.
Passerò la mia lingua sui bordi della tua pianta e leccherò la punta delle dita.
Prenderò l’alluce, lo separerò e lo succhierò una volta sola, ma tu sentirai la mia lingua nei tuoi visceri.
Vengo anche da te.
Che cosa hai visto?
Ancora nulla.
Che cosa hai sentito?
Niente di niente. Non ti ho nemmeno ancora guardato.
E allora, perchè quel monticchiolo tra le gambe?
Slaccio un bottone al centro delle cosce.
Poi un bottone all’altezza dell’ombelico.
Ne restano tre, in mezzo.
Ancora uno. E uno.
L’ultimo al centro è teso.
Sotto è tutto un nerume.
Non riuscirai a slacciare il bottone dove premi.
Ti permetto di tentare, però.
Sarà difficile, con i polsi arrotolati da strisce di pelle di gazzella.
Rieccomi a te. No, non ti trascuro.
Hai due bei bottoncini duri, sul petto, ma questi sporgono da sotto la veste!
Li prenderò entrambi, con entrambe le mani, tra l’indice e il pollice.
Li cullerò e per un momento li stringerò selvaggiamente.
Li consolerò scoprendoli e offrendo loro olio di palma.
Di nuovo tu.
Mi sdraierò un attimo su di te.
Assaporerò le tue parti molli tra le mie gambe.
Strofinerò coscia a coscia.
Se dovessi sentirti diventare duro allora prenderò tra le mani le tue palle e le stringerò piano, e la tua crescita si fermerà oppure stringerò più forte.
Ecco. Così.
Sì. Ti libero.
Ora sei di mezza tacca.
Posso sbottonarti intorno.
Puoi rialzare le tue vele mentre mi allontano.
E ancora tu. Nero turgido grosso prepotente.
Nell’impari lotta con l’ultima madreperla hai scoperto una punta rosso fuoco.
Rosso e nero in lotta.
Mi piace guardarti che comprimi i muscoli del ventre piatto sotto i peli corti e ricci, e poi li lanci di qua e di là senza tregua.
La punta è sempre più rossa ma la madreperla resiste.
Sei bravo nella lotta.
Meriti che io deterga il sudore della tua fronte.
Con le mie labbra appoggiate alle tue depositerò, sotto le gengive, tre praline di nettare e miele.
Mio lottatore.
A te nuovamente.
Perchè il tuo alluce rotea senza posa?
Mi deludi.
Come puoi pensare che io torni al passato?
Solleverò la tua veste e la rimboccherò fino a coprire quell’asta indecorosa.
Allargherò le tue cosce.
Ti farò sentire il rumore della mia mano che risale verso il centro.
Sfiorerò i peli all’interno delle tue gambe.
Scosterò le tue natiche inutilmente indurite, comicamente resistenti.
Aprirò i peli folti che lì albergano.
Immergerò l’indice della mia mano destra in latte di asina e lo spingerò lentissimamente nel tuo buco del culo.
Ti sentirai umiliato fino alla morte, vero?
Ma che cosa dire di quando starò in fondo e muoverò appena la punta del mio dito e tu stringerai per non farmi più uscire?
La punta del mio pollice destro muove, ora, in mezzo alle tue palle, fino alla base della tua verga eretta.
Basta così.
Ora a te.
Ma no.
Ora a me.
Voglio che mi guardiate.
Voglio che mi guardiate.
Che cosa vi aspettate?
Che mi denudi, forse?
Che mi stringa i seni all’insù?
Che apra le mie cosce e possiate vedermi colare?
Tutto questo non avverrà.
Epperò voglio che mi guardiate.
Farò saltare l’ultimo bottone del mio gladiatore e scoprirò il suo glande di fuoco.
Strapperò via quello che resta della tua tunica e con schicchere sottili terrò sveglio il tuo bambino intempestivo.
Richiuderò le tue gambe e libererò quel bozzolo umiliato.
E scoprirò te e te e te e tutti tutti voi tutti.
Vi stenderò tutti a terra a formare un rosone, con i piedi che si toccano lato a lato.
In mezzo a voi vedrò i vostri cazzi fumiganti ergersi imperiosi.
Allargherò la mia veste di seta a la appoggerò sulle punte dei vostri bastoni rutilanti.
Starò immobile, e i vostri pennelli trasmetteranno al mio seno, attraverso la seta sensibile, le vibrazioni dei vostri colori.
Ruoterò, e la mia veste schiaffeggerà le punte dei vostri batacchi.
Vi sembrerà di sentire l’odore della mia fica, e io mi abbasserò e girerò da una parte e dall’altra.
Controllerò le vostre palle gonfie.
Non perderò di vista le tensioni dei vostri quadricipiti.
E danzerò per voi con la mia seta sui vostri cazzi fino a farvi godere come mai avete potuto prima.
I meli non fioriscono a caso, questo si è sempre saputo.
Apparecchiata per terra, una bella tovaglia a quadretti bianchi e rossi, lucida.
In certi momenti mi sembrava di vedere un solo signore, vestito di nero, e un attimo dopo un’intera famiglia al picnic. Poi ancora solo il signore vestito di nero. Che strano!
Il signore vestito di nero aveva in mano un ramo tutto dritto. Nero, lucido, che muoveva in aria.
A certi movimenti del ramo la tovaglia stesa si è riempita di tante cose buone.
Altri movimenti del ramo e le cose buone sono andate dentro al contenitore rotondo, nero, con la base piatta, aperto sopra.
Ho guardato bene intorno, avevo l’acquolina in bocca, ho aspettato di essere sicuro che non ci fosse nessuno: ci sono saltato dentro.
Sono ancora qui. Ogni tanto il signore vestito di nero mi tira fuori, mi prende per le orecchie e mi mostra ad altri signori dicendo “et voila”!
Si chinò per afferrare la spada e colse l’ultimo sguardo di Oloferne.
Si rialzò.
Afferrò i capelli di Oloferne con la mano sinistra.
Con la destra: un colpo bastò. Si era ben esercitata.
Poggiò la testa sul piatto.
Andò verso lo specchio.
Dietro, per quel turno, c’erano Artemisia, Botticelli, Klimt, Caravaggio.
Giuditta disse spero che sia venuta bene, stavolta.
http://librilettiscritti.it/website/wp-content/uploads/2021/07/logo-2.png00Stefanohttp://librilettiscritti.it/website/wp-content/uploads/2021/07/logo-2.pngStefano2021-09-08 16:37:422022-04-26 15:44:29Giuditta e Oloferne