Ieri sera – tu stavi riparando la moto – sono scesa al mare. La spiaggia era piena di meduse in agonia. Come è possibile, tutte così all’improvviso? Fino a ieri non se n’era vista una! E che ci fanno, qui, le meduse, in un’isoletta della Grecia? Ma tu mi stai a sentire?
Rispondi sì certo e mi chiedi il piccolo coltello di bambù per spalmare il burro. Te lo passo.
Ho avuto voglia di piangere, vedendole così, senza più colore, rattrappite di sabbia. Ne ho toccata una con un pezzo di canna: era dura, non leggera come le vedi librarsi nell’acqua. L’ho sentita gemere, al tocco della canna.
Lo so, lo so che le meduse non hanno voce, ma quella stava morendo, e il suo dolore mi ha trapassato.
Tu continui con gusto la colazione. Mi dici che le meduse sono prive di sensibilità, che non possono soffrire. Io queste cose le so. Tu sai che io le so.
Ed ecco che la vedo: luminosa, sovrascritta a lettere nere su un arcobaleno.
Dalla faccia che fai – una vaga smorfia interrogativa – capisco che la mia espressione dev’esserti ben strana.
È la parola sciupare, quella che copre l’arcobaleno. La vedo solo io, lo so.
Posso smettere di sciupare. Semplicemente.
Spero che le meduse fossero morte tanto tempo prima di arrivare sulla spiaggia. Questo è un pensiero che mi consolerebbe. Avresti potuto esprimerlo tu. Spero che siano morte di morte naturale e nel loro elemento noto. Che non siano morte tra spasimi sulle sabbie ostili, mentre l’irraggiungibile salvezza delle maree le lambisce e si allontana, senza pietà.
Non parlo più con te. Sono tornata ai soliloqui interni. Ma adesso questo non mi preoccupa più.
Sarebbe uno spreco anche la scenata che ti aspetti.
Infatti: eccoti lì già pronto a sfoderare il giornale.
So bene che stai riflettendo su quella che chiami la mia eccessiva emotività, priva di basi logiche.
Ho smesso di aspettarmi una reazione che sia diversa dal tuo soave distacco, dal quel grigio perbenismo, dalla tua brillante intelligenza al servizio del piattume.
Sono ingiusta. Non è stato solo questo.
Eh sì, ho pensato proprio “non è stato solo questo”: al participio passato.
A volte mi torna nel cuore uno sbuffo di affetto per la tua pulizia, la tua serietà, la tua dolce indecisione.
Non ho mai sentito il tuo desiderio.
Mi sarebbe piaciuto, sentirlo. Mi avrebbe turbata. Mi avrebbe dato calore. Mi avrebbe fatto sentire viva. Mi avrebbe spaventata.
C’è uno squarcio, nel mio ventre, dove ti avrei voluto, dove tu non sei mai voluto entrare. L’hai lasciato avvizzire.
Come abbiamo potuto, per tanti anni?
E adesso, di questo vuoto che è a tua misura, che ne faccio?
Una sete inestinguibile.
Voglio diventare una medusa, nuotare luminescente tra i flutti, brillare nella notte argentata, rotolarmi con le onde.
Posso farlo, se l’aria diventa il mio mare.
Ma sono tornati. Sono tornati i granelli di sabbia. Quelli che mi impediscono di scivolare nel mare.