L’ultima volta era stato forse dieci anni prima.
Forse di più.
I preliminari non erano cambiati: parcheggio lontano, lunga passeggiata a passo svelto verso i cancelli, colori e suoni di trombette tutt’intorno, entrata dal lato in ombra.
Lungo la scalinata faceva quasi freddo ed era scuro. Quando uscì di nuovo al sole fece un grosso respiro a pieni polmoni e si guardò intorno soddisfatto: il prato verde aveva mantenuto il suo fascino.
Intorno, sugli spalti, colori, bandiere, striscioni, magliette, torsi nudi.
Cominciò a sentirsi meglio.
La sera prima aveva litigato ferocemente con la sua compagna. Nessuna scenata, per carità. Poche parole secche tra i denti. Tirate dall’uno all’altra come freccette intinte di curaro. Niente pugni sul tavolo né piatti per terra: stilettate.
Effetto bomba N, lo chiamava lei. La radiazione che passa dentro sottile, lascia il segno che lì per lì pare e non pare e dopo un mese ti tocca un’emorragia interna o l’inizio di un processo canceroso per modifiche cellulari.
A letto non si erano parlati. Ognuno aveva aperto il proprio romanzo, spento la propria luce, dormito di schiena.
La mattina il massimo della confidenza era stata mi passi il burro per favore e la rinuncia alla visita comune alla galleria d’arte moderna, da tempo programmata, era sembrata ad entrambi scontata.
Lei era andata a pranzo dai suoi genitori. Lui aveva accampato un’emicrania a cui lei aveva finto di credere e si era cotto una fettina, accompagnata da un pomodoro condito con olio e sale.
Aveva deciso d’impulso di andare allo stadio.
Ora c’era. Non poté fare a meno di provare un brivido quando un boato accolse le maglie rosse e quelle bianche che uscivano dagli spogliatoi, affiancate.
Le bandiere sventolavano tutt’intorno. Nella scalinata sotto di lui tre signore di una certa età tagliavano cocomeri per il resto della comitiva. Gliene offrirono una fetta che accettò volentieri, lusingato da un rapporto umano vero, per quanto fugace e superficiale. Gli sarebbe piaciuto ricambiare ma non seppe come.
La partita era bella, con cambiamenti di fronte frequenti e tiri pericolosi da entrambe le parti.
Si sentiva preso più di quanto si aspettasse o si volesse concedere.
Si ritrovò in piedi quando, dopo una rapida azione in verticale, il giovane attaccante della squadra di casa si trovò solo davanti all’ultimo difensore, fece una finta a destra e schizzò sulla sinistra avventandosi verso l’area ormai vuota.
E si ritrovò col pugno destro alzato, in un gesto che aveva avuto altri sapori, quando il pallone calciato violentemente gonfiò la rete dalla parte opposta a quella dov’era accorso il portiere.
«Gooooooolllll!»
Il grido gli eruppe dal fondo delle budella.
Si risiedette e si guardò intorno sconcertato. Accolse la bellezza di non doversi preoccupare di controllare le proprie emozioni, elementari che fossero.
Alla sua sinistra, nel centro della curva, notò un ondeggiamento. Un gruppetto di tre o quattro ragazzi correva in fila indiana cercando di scansare i corpi accalcati. Un gruppo più folto – saranno stati una decina – li inseguiva a breve distanza.
Sfilarono sotto di lui mentre le file si aprivano per far passare inseguiti e inseguitori.
Sarebbe stato facile bloccare i fuggiaschi, unici sostenitori della squadra di fuori in mezzo a uno stadio tutto di casa, ma una forma di fair play della folla favoriva invece il passaggio.
Incitando però gli inseguitori.
I fuggitivi erano ormai quasi arrivati alla scalinata larga in fondo alla quale stazionava il gruppo di carabinieri del servizio d’ordine – e quindi la salvezza – quando l’ultimo cadde. Il penultimo si fermò un attimo, si girò, fece un passo indietro, aiutò il compagno a rialzarsi e si ributtò a capofitto per le scale.
Il ragazzo caduto, rialzatosi, gli corse dietro. Qualcuno degli spettatori, meno dotato di fair play, lo sgambettò, e il breve vantaggio che aveva sugli inseguitori, già dimezzato dalla precedente caduta, fu consumato.
Gli furono addosso. Lo picchiarono tutti in pochi attimi e si dispersero prima che i carabinieri intervenissero.
Il ragazzo zoppicava; dal naso rotto colava sangue in quantità. La maglietta stracciata. Piangeva a singhiozzi incontenibili.
Lui si rivolse di nuovo al campo.
Intanto guardava sé da fuori: non si era soffermato un istante di troppo sulla scena di violenza? Non aveva oltrepassato la sottile soglia dove il giusto orrore e lo sdegno diventano compiacimento? Forse sadismo?
Si riscosse perché lo stadio era ammutolito.
Avevano pareggiato. Ora gli altri si stavano abbracciando in campo mentre la squadra di casa riportò mestamente la palla al centro.
Solo un attimo, e i cori di sostegno ripresero.
Anche lui si mise a cantare. Un sottile senso di liberazione per – finalmente! – l’irresponsabilità garantita dalla folla.
Non come alle manifestazioni politiche, dove si sentiva parte di qualcosa.
Qui la folla era la mediazione con l’universale senza che lui fosse tenuto a farne parte. Decise che, una volta a casa, questa considerazione avrebbe meritato un approfondimento.
Dal profondo dei polmoni gli uscì un possente «olé», mentre il pugno destro saettava di nuovo al cielo, al terzo passaggio di seguito della sua squadra, mentre gli avversari si affannavano a rincorrere il pallone.
L’«olé» solitario fu ripreso e amplificato. Gli parve che qualcuno vicino ammiccasse verso di lui con complicità solidale.
La partita scorreva sempre interessante e con vicende alterne. Non sapendo fischiare, strillò acutamente quando un difensore avversario abbatté il difensore della sua squadra che, sfuggito sulla fascia laterale, si apprestava a centrare.
Era sempre più preso. La squadra di casa sembrava però ormai stanca mentre gli avversari ora controllavano il gioco.
Tuttavia l’incitamento della folla spingeva i giocatori di casa ad attaccare.
Un difensore della squadra avversaria, rilanciando via, pescò vicino al centro campo l’odiatissimo argentino, fin’allora in ombra. Questi controllò la palla con la sicurezza del campione e con una finta di corpo mandò per terra il suo avversario diretto.
C’era da percorrere tutta la metà campo ma la strada verso la porta era libera. Scattò velocissimo sulla sinistra puntando verso l’area. Con le larghe falcate che l’avevano reso famoso, l’ultimo difensore – ormai avanti con gli anni ma vera e propria bandiera della squadra di casa – converse verso l’argentino ma, quando sembrò averlo raggiunto, quello aumentò incredibilmente la velocità, cosicché il difensore, gettatosi a corpo morto con l’ultimo fiato rimasto, riuscì solo a strappargli un pezzo di maglia.
L’argentino, seppure sbilanciato, continuò la sua corsa.
L’intervento dell’anziano difensore aveva tuttavia concesso al biondo centrale della squadra di casa, che accorreva affannosamente, l’attimo sufficiente ad arrivare sull’argentino.
Il tacco piombò sull’esterno della gamba d’appoggio dell’argentino mentre questi era ormai pronto al tiro.
Nello stadio ammutolito si sentì distintamente il crac del ginocchio spezzato.
Ammazzalooooooooo!
Aveva urlato con tutte le sue forze, mentre lo stadio tirava un sospiro di sollievo perché il fallo era avvenuto poco prima dell’area e dunque non c’era il rischio di un rigore.
La partita finì uno a uno.
Fece all’indietro lo stesso percorso, fino al lontano parcheggio, dove qualcuno gli aveva sfilato i tergicristalli.
Impiegò la normale ora e mezza a districarsi nel traffico incarognito.
A casa non c’era ancora nessuno. Un messaggio nella segreteria telefonica diceva che la sua compagna era andata al cinema con amici comuni.
Si fece una doccia per scaricarsi e levarsi di dosso gli olezzi della folla.
Abbassò le serrande. Nella penombra si soffermò a scegliere nella nutrita discoteca. Optò per il Triplo concerto.
Si sedette sulla poltrona preferita e si lasciò andare.
Quando sentì arrivare l’ascensore e armeggiare con le chiavi, chiuse gli occhi.
Avrebbe finto di essersi addormentato con Beethoven.