…i personaggi non nascono da un corpo materno come gli esseri umani, bensì da una situazione, da una frase, da una metafora, contenente come in un guscio una possibilità umana fondamentale che l’autore pensa nessuno abbia mai scoperto o sulla quale ritiene nessuno abbia mai detto qualcosa di essenziale.

I personaggi del mio romanzo sono le mie proprie possibilità che non si sono realizzate. Per questo voglio bene a tutti allo stesso modo e tutti allo stesso modo mi spaventano: ciascuno di essi ha superato un confine che io ho solo aggirato. È proprio questo confine superato (il confine oltre il quale finisce il mio io) che mi attrae.”

Milan Kundera

 

“Giorgio” è il mio primo romanzo.

Il ricavato delle 500 copie, stampate quando non c’era il self-printing, è andato per metà a Emergency

e per metà alla Fondazione “La città del sole”, della quale era presidente Clara Sereni.

Qui sotto il primo capitolo.
Se vi piace
scrivetemi a stefdesa@gmail.com e vi mando l’intero romanzo in pdf. Se siete a Roma ve lo do di persona.

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OGGI

Ho rinviato soltanto di paio di giorni, infine.

È una giornata di primo autunno. L’aria è fresca. Soltanto il rumore dei miei passi sulle foglie secche. Sugli alberi, le foglie ingiallite sono veramente poche, e tutte sui rami più bassi. Mi suona strano che, in un giorno così, il mio cervello si dia da fare per dedurre che “quindi” il tappeto di foglie marroni è il risultato dell’autunno scorso. Quanti autunni servono a fare un tappeto di foglie secche sotto ai faggi? Per quanti anni una foglia resterà a far parte della coperta morbida che ricopre la terra indurita, prima di sbriciolarsi e diventare altro?

Lo zaino ha il peso solito. Anche se vado per un sentiero che potrei percorrere a memoria, ho voluto che fosse come sempre, compresi l’altimetro, la bussola, il coltello, il binocolo, gli oggetti per le emergenze.

La lampada applicabile sulla testa. La scatola di metallo – il cui coperchio, a rovescio, può essere utile anche come specchio – contiene fiammiferi antivento, potassio, zucchero, un tubicino di gomma per l’acqua, ago e filo, un fischietto, un mozzicone di matita, carta, e forse qualcos’altro che non ricordo. La sigillai, contro l’umidità, con scotch pesante intorno ad una busta di plastica semirigida, e non l’ho mai più aperta. So con certezza, stavolta, che niente di tutto questo mi servirà. Pure, ho voluto che fosse come sempre.

Le gambe sono ancora forti. Il cuore gonfio di vita. L’occhio vigile. Godo del raggio diritto al suolo che interseca le foglie di questa stagione che, in gradazione, ne sfuma i colori.

Che cos’hanno di speciale una faggeta erta, e poi una conca morbida e larga, e a finire una pietraia – una madonnina nel punto più scoperto – e in cima 360 gradi di spazio? A quanti percorsi si addice questa descrizione? Che cosa ha reso questa montagna speciale per me? Perché l’ho scelta?

Mi sono svegliato all’ora solita. Ho spalancato la finestra alla brezza e al pettirosso sul prato, che ormai è di casa e non scappa più ai miei movimenti e rumori. Quanto vivono i pettirossi? Doveva essere qualche suo lontano antenato a fare il bagno nella vaschetta dell’acqua di Broc. Si scrive con la “c” finale, non kappa. Gli diedi lo stesso nome del cane preferito della principessa, veloce come il vento e tonto come un broccolo lesso. La principessa, una volta al mese, si divertiva a correre insieme con Broc su e giù, scartando di continuo, per i lunghi corridoi del palazzo. Poi si fermava, estraeva dalla tasca del largo vestito a fiori il pannolino mestruato e glielo lasciava annusare. Mentre Broc, inebriato, l’olfatto confuso da quella essenza penetrante, vi si accaniva, lei si nascondeva dietro una porta, ad assaporare l’affanno della ricerca disperata della padrona, i guaiti, le unghiate sul parquet lucido nelle frenate per smusare tutte le porte. Fino alla riconciliazione finale densa di abbracci e linguate avide e riconoscenti.

L’odore del caffè, che si mischia a quello del grasso sul cuoio degli scarponi e ai profumi del mattino, produce un insieme che non è diverso da quando – quanto tempo è passato? – mio padre mi svegliava per portarmi a caccia.

Ho voluto una giornata normale per questa occorrenza speciale. Nel silenzio totale del bosco la mia urina calda e vaporosa sfrigola, al contatto con la brina gelata.

Riprendo lento pede, senza affanno, per la salita ripida e sdrucciolosa, priva di orme. Si vede che è un po’ che nessuno ci viene. Me lo conferma un ramo sottile che si protende in orizzontale. Mi ci immagino, anche se il ramo è più piccolo della dimensione che, nella mia fantasia, dovrebbe avere per sostenerli, Cip e Ciop. Sopra al ramo ce n’è un altro quasi secco su cui traspare una ragnatela. I miei amici Cip e Ciop mi accompagnano saltellando e mi sento come Biancaneve in mezzo a un prato con tutti gli animaletti alleati che le zompettano intorno. Mi accorgo che è pari pari, quella che mi è venuta alla mente, l’immagine di una stampa a colori che la principessa aveva portato con sé dall’America. I particolari sono sfumati alla memoria, ma la vista d’insieme è ben definita. Un’altra stampa rappresentava Biancaneve che chiama i nani a pranzo, con Brontolo che protesta e Cucciolo che si frega le mani.

Qui è dove Broc, il bastardone bianco con le pezze nere, per la prima volta aveva dato segni evidenti di non farcela più. Riconosco il punto da quello che sembra un grosso ramo ed è invece il tronco principale che si è un po’ sradicato e poi si è completamente allungato sulla destra, per chi sale, e adesso sta tutto orizzontale. Le radici sono esposte all’aria. Nel punto di curvatura maggiore, dove il tronco, per la direzione che ha assunto, sembra diventare ramo, sono cresciuti due rami che vanno su diritti e che, per la posizione verticale, sembrano aspirare ad essere loro il tronco.

Io ammiro questo instabile equilibrio e mi chiedo se le varie parti dell’albero – radici, tronco, rami – in qualche modo comunichino tra di loro e scelgano, tra quelle possibili, una crescita compatibile con lo stato di bilanciamento raggiunto, e che si è conservato da anni.

È un punto ripido ma non ripidissimo, con tante foglie secche. Broc di solito mi precedeva e faceva almeno cinque volte la lunghezza del mio percorso, nel suo vagare avanti e indietro, finalmente libero di scorrazzare.

Quella volta restava regolarmente dietro di me, il che non mi preoccupava più di tanto, abituato al suo vagabondare sempre a portata di voce.

Prima di cominciare a guaire – tendeva ad evitarlo perché se ne vergognava – aveva raspato in un modo che, percependolo solo con l’udito, mi era sembrato che avesse catturato qualche animaletto o, se fosse stata la zona e la stagione e se ne fosse stato capace, avesse scovato qualche tartufo e lo stesse disseppellendo.
Non ce la faceva a salire.

Cercava, puntandosi, con le zampe davanti allargate, di non scivolare a tergo. Con quelle posteriori, però, raccolte sotto al corpo steso a terra, non aveva la forza sufficiente a darsi la spinta. Slittava, perciò, terrorizzato, all’indietro, sia che stesse fermo sia che cercasse di avanzare.

Il guaito iniziale passò ad un ululato disperato. La mia prima sensazione fu di divertimento. Sorrisi, come in quella gioia sottilmente crudele nel vedere l’uomo dal fisico possente o la donna dall’eleganza luminosa che rovinano a terra per un banale inciampo.

Scesi fino a lui, lo imbracai con la corda e lo accompagnai piano piano finché non ebbe recuperato. Nel seguito della salita, anche in punti molto ripidi, non ebbe bisogno di assistenza e riprese il suo scorrere avanti e indietro, rassicurandomi sulla natura episodica della defaillance.

Il ritorno fu un bel po’ più duro, per Broc.

Su un costone di sterpi e sassi, al mio richiamo perché si era allontanato troppo verso l’alto, schizzò in giù nella mia direzione, mi superò di gran carriera e si tuffò dritto verso lo strapiombo, che dalla mia posizione non potevo vedere fino in fondo. Scomparve per qualche minuto alla vista. Stavolta mi divertii solo a raccontarlo nei giorni successivi, e lì sul posto il groppo alla gola mi lasciò soltanto quando, poco dopo, come se niente fosse, risbucò ai miei richiami sempre più affannosi da dietro un cespuglio, arrancando in salita, perdendo colpi all’indietro e guaendo con gli occhi densi di terrore e tuttavia felici di avermi ritrovato: l’energia prodotta dalla paura era ancora sufficiente a fargli superare il dolore dell’artrosi avanzata – scoprii poi – che gli aveva impedito di esercitare la pressione necessaria a frenare in discesa.

Da qui in poi fu un calvario. Arrivati più o meno al punto ripido con le foglie secche, dove si era impuntato in salita e dove in discesa eravamo soliti divertirci a scivolare come sulla sabbia morbida, che avesse riconosciuto il punto o che fosse assolutamente sfinito, Broc si buttò per terra, la cassa toracica che si alzava su e giù e l’occhione all’aria che mi guardava implorante.

Pur essendo un punto ripido mi fermai. Mi sedetti vicino a lui in modo da puntellarlo con il corpo. Gli misi intorno la mia giacca a vento e stetti così un po’ a farlo riposare, carezzandogli la testa. Sembrava essersi addormentato. Stava per fare buio e bisognava tornare. Lo scossi, lo chiamai, ma non si voleva più alzare. Cercai di caricarmelo sul collo come una pecora ma questo lo spaventava e infatti si divincolava e cadeva giù a terra e si allontanava da quella nuova minaccia, tra la confusione le difficoltà la fatica.

Completammo in qualche modo quella discesa.

Broc non venne più con me in montagna.

Qualche mese appresso, dopo un periodo di vani tentativi di cura, cominciò a trascinare la zampa posteriore sinistra. Diventò incontinente. La mattina non riusciva ad alzarsi da solo dalla cuccia, sicché non lo trovavo più mugolante nell’andirivieni dell’attesa della prima uscita, ma sempre più di frequente sporco dei suoi escrementi e con l’aria colpevole e avvilita.

Presto non fu più in grado di salire le scale né di scenderle. Qualche volta, affinché riuscisse a bere, dovevo farlo sdraiare, sollevargli la testa e tenergliela alzata mentre sotto gli appoggiavo la ciotola, su cui Broc passava qualche stanco colpo di lingua. Sempre più spesso la ciotola era piena delle piume del pettirosso, che la aveva ormai adottata come la propria piscina preferita. Ci sguazzava senza più nessun timore, e Broc lo guardava tranquillo e questo era sconvolgente, per chi lo aveva conosciuto come l’essere più accanito nella difesa ad ogni costo e verso qualsiasi vivente – dai gatti agli umani alle lucertole… – del proprio territorio.
Un giorno lo caricai sul sedile anteriore – mi guardò con aria interrogativa e felice per la violazione della regola numero uno – della macchina e guidai fino all’inizio del sentiero. Se ne stette accoccolato, senza cercare – come avrebbe fatto al solito, e raspando ad ogni curva o frenata – di controllare vigile lo spazio circostante. Con cautela ci addentrammo nel bosco lateralmente, quasi in piano, fino ad arrivare ad un piccolo sperone che dava sulla parte bassa della vallata. Broc si accucciò ansimante, io mi sedetti vicino. Tirai fuori dallo zaino piccolo un paio di belle salsicce, di quelle che il veterinario aveva assolutamente proibito. Con la mozzetta – un coltello a punta tronca, adatto agli innesti – che era stata di papà, le tagliai a misura di bocconi e le diedi a Broc che, con l’espressione sorridente, sì, sorridente, se le divorò incredulo. Versai nella ciotola il contenuto della mia borraccia. Broc diede solo un paio di linguate svogliate e si riaccoccolò a ciambella. Il sonnifero fece effetto in qualche minuto. Dalla giugulare, come tante volte avevo fatto, anni e anni prima, con i maiali, gli infilai nel cuore il coltello lungo, stretto e affilato. Non emise alcun suono e neppure si mosse. La mia mano era ancora ferma. Restai qualche minuto ad accarezzargli la testa finché, con un piccolo fremito, anche il respiro cessò, insieme con la fuoriuscita del sangue. Volli coprirlo di foglie e frasche, in una simulazione di sepoltura.

Da allora, è la prima volta che torno su questo percorso.

Dove i faggi sono più fitti il sole, ancora basso, non penetra, e il vento fresco mi induce un lieve brivido sotto alla pelle, in contrasto con il calore interno indotto dal movimento del salire.

Il vulcano sulle Ande. Eravamo saliti di notte, in un blu che non è dicibile, accompagnati dal rombo sommesso dei crateri che scuoteva la terra grigia di sabbia e lavagna, screziata di zolfo.

A quattromila metri, di notte, anche d’estate, fa freddo. Molto freddo.

La terra, vicino ai crateri, è calda. D’inverno la neve non attacca, lì.

La sentii come una richiesta impellente del mio corpo: mi spogliai completamente, tremante di freddo, sotto gli occhi esterrefatti dei miei amici, e mi scaldai rotolandomi nella sabbia, dove restai steso a braccia e gambe larghe.

Sullo sfondo, l’oceano, impregnato della luce della luna.

Fui, per qualche felice momento, parte di qualcosa di grande. Come lo sono adesso a salire questo sentiero di rocce bianche, con intarsi di muschio tra spacchi di secoli, foglie secche e qualche germoglio di faggio. Gli uccelli non cantano.

L’apparire del cielo al di sopra degli alberi mi coglie di sorpresa. Sembrava che la salita non finisse più. Invece, dietro una curva è in vista, per la prima volta dall’inizio del percorso, la cima della montagna. Mi sembra lontanissima. Dietro la curva successiva, dalla parte opposta – il sentiero in questo punto è a tornanti – è comparsa, annunciata dal cielo, la cima della cresta del lato dal quale sto salendo. Si è proposta con un azzurro intenso, in contrasto con i rami. Qui – sono abbastanza più in alto rispetto all’inizio del cammino – cominciano a esserci più foglie gialle. Il cielo, è lo stesso cielo, eppure, dove i rami sono più radi dà sul celeste, e dove i rami sono più scuri, più in lontananza, più fitti, viceversa diventa quasi blu.

Ancora una zona in falsopiano di bosco, sulla destra. Finito il bosco, la cima sarà a vista fino all’arrivo.

Questo è l’unico tratto pianeggiante del percorso.

Mio figlio. Se avessi potuto conoscerlo, oggi sarei meno libero di fare questa scelta. Dunque, sono qui. I miei polmoni si allargano. Chissà come potrei apparire a qualcuno che mi incontrasse? Mi piacerebbe essere descritto come un vecchio, vigoroso, con gli occhi intelligenti. Magari, invece, potrei essere osservato come un vecchietto affannato che ma dove va all’età sua per le montagne guarda gli occhi appannati avrà pure la cataratta… E questa è la sana varietà del mondo.

Anzi, i rapporti tra le persone hanno ragione di essere proprio per lo scarto esistente tra la percezione che ciascuno ha di sé, e la percezione che gli altri ne hanno. Da questo punto di vista, la nostra vita può essere descritta come l’affanno, strutturalmente inane, di far corrispondere l’immagine che abbiamo di noi stessi con quella che ne hanno gli altri. Tanto che, quando ci sembra di aver trovato lo specchio che meglio ci riflette, allora quello specchio chiamiamo amicizia, o amore.

È anche perché da tempo questo mi è stato chiaro, che sono qui, oggi. “Un vecchio vigoroso con gli occhi intelligenti”: sì, così mi piace. Gli scarponi sdruciti negli anni si sono adattati ai miei piedi. La suola consunta, dove non è rimasto quasi niente carrarmato, in certi punti fa poca presa, ma questo è compensato dalla maggiore sensibilità del piede che mi fa riconoscere le forme delle rocce e mi fa procedere leggero e spedito, qui, dove la pendenza è lieve.

Il bosco finisce in una grande conca verde. Lo stazzo circolare al margine degli ultimi alberi, per i cavalli che pascolano, si sta di nuovo riempendo d’acqua dopo la siccità estiva.
Mi fermo, dopo due ore buone di salita nel fitto, ad assaporare il cielo aperto, per quanto ancora circoscritto dai contorni della conca. La cima è a vista sulla destra. Respiro forte. Sì, non avrò ripensamenti. E di nuovo, in una giornata così, la mia mente si attarda sulla considerazione tutta intellettuale che “non avere ripensamenti” è esattamente un ripensamento. Sono sempre stato affascinato dai paradossi, piccoli e grandi. Qualche volta me ne vergogno un po’.

La vergogna. “Una sola donna ebrea ha gettato la vergogna sulla casa del re Nabucodonosor”. Che straordinario testo, la Bibbia. Era la Giuditta di Klimt che mi guardava nel mio letto di ospedale. Una riproduzione chissà come finita in quella stanza singola che il principe aveva preteso mi fosse assegnata.

La mia vita avrebbe avuto tutto un altro corso senza quella coltellata. Ma no, ma che pensiero insensato, attribuire ad un qualche specifico evento, per quanto significativo, drammatico, importante, la responsabilità dell’andamento di una vita! In verità, la nostra vita può avere corsi diversi ad ogni preciso istante e per ogni minimo fatto, nessuno dei quali è insignificante. In questo preciso istante l’apparire di un corvo, o di un’upupa, o di un’allodola, o di un passero, ciascuno potrebbe richiamarmi alla memoria eventi diversi che potrebbero indurmi a confermare o modificare o rovesciare la mia scelta; un’improvvisa tempesta o una storta dolorosa potrebbero impedirmi di salire in vetta; potrei inavvertitamente disturbare cuccioli di cinghiale ed essere spaventato dall’attacco dalla madre; potrei essere raggiunto da una carovana caciarante di boy scout e scapparne; potrei decidere di fermarmi qui e finalmente costruirmi quella capanna di frasche – per ripararmi nella notte – che ho sempre sognato ma non realizzato, per non essere mai riuscito a perdermi abbastanza da non ritrovare la strada del ritorno prima di notte; potrei riconoscere un volto amato nelle pieghe del muschio sulla pietra o nella forma di una nuvola ed essere sopraffatto dalla nostalgia; potrei rubare un cavallo e lanciarlo al galoppo e confondere l’odore del cielo limpido con quello del mare e sognare di cavalcare sulla spiaggia con la principessa, come tanto tempo fa; potrei incontrare un orso e battermi con lui, facendo vincere la rabbia sulla paura, come non fui capace in sudamerica. Tutti i miei sensi, tutti i miei sentimenti sono all’erta. È un buon momento. È il momento giusto. È ora di riprendere l’ascesa.

Il terreno adesso è morbido di suo, anche senza foglie secche l’erba del pascolo è accogliente con il mio passo. Si fa ripido. Finita la faggeta, querce rade occupano il fianco che sto risalendo. Lentamente, molto lentamente. Da qui in cima sarà sempre più ripido. Allo scoperto il sole si sente. Mi fermo. Scarico lo zaino a terra. Dalla tasca laterale estraggo la borraccia. Bevo lunghi sorsi. Mi sfilo la giacca a vento e la ripongo nello zaino. Avverto la fatica nel ricaricarlo sulla schiena. La fluidità del movimento – tante volte ripetuto – aiuta la crescente rigidità delle ossa e la calante elasticità dei muscoli. Dentro, mi sento leggero, vigoroso.

Da dove comincia il tratto petroso si apre la vista intorno. Ora, non vi sono più alberi fino in cima. È sempre un’emozione nuova, che scalda dentro, quella che l’occhio trasmette alla pelle, già sollecitata dall’aria frizzante e dal sole.

Esiste un altro percorso, alternativo alla faggeta, per arrivare fino a qui. Viene dal Santuario, e passa vicino al posto delle fragole. Lo scoprii sbagliando strada. Ne indovinai l’odore prima di vederle. Una distesa sconfinata su una spalletta scoscesa. Sembra incredibile come l’occhio percepisca, da un certo istante, tutto il rosso punteggiante là dove, solo un momento prima, era tutto e solo sfumature di verde e marrone. Fui felice come un bambino. Ore di raccolta faticosa per poche manciate che spiaccicavo impiastrandomi tutto il viso per riempire bene la bocca e far sciogliere i piccoli frutti ammassati schiacciandoli con la lingua contro il palato, fino a confondere le narici su quale fosse l’odore che persisteva fuori, sul terreno, e quale l’aroma prodotto nell’interno del corpo, dalle fragole che entravano a contatto con la saliva e le mucose delle guance, le gengive, le labbra, fino alla gola.

Mi fermo. A prendere fiato. A recuperare tutto intero il ricordo del sapore delle fragole. Chiudo gli occhi. Fa caldo. Mi levo il cappello. Non ho voglia di riporlo nello zaino, così me lo infilo a forza sotto a una bretella.

La cima mi ricorda la forma del muso di uno squalo martello. Da qui, ci sono due percorsi possibili per raggiungerla.

Uno è più diretto: un sentiero stretto sulla mezza cresta sassosa, a sinistra. Quando piove è sdruccioloso e infido. Il verde che lo accompagna di lato, e sembra rassicurante, rende ingannevole il dirupo sottostante. Una statuetta di madonna, in un incavo di roccia, ammonisce e incoraggia.

L’altro, sulla destra, è a percorso libero, sull’ultima pendenza mista di erba zollosa e pietre. Quando c’è nebbia può portare facilmente fuori strada, verso la controcima che sta nella direzione esattamente opposta.
È facile perdersi, in montagna. È facile perdersi anche seguendo rigorosamente il sentiero. Non c’è mai un solo sentiero. Mi è sempre piaciuto perdermi solo un po’. Trovare la direzione anche fuori della rotta stabilita. Più che il sentiero, sono i punti di riferimento a fare da guida. Non è diverso nella vita.

Scelgo il sentiero della madonnina.

Il principe raccontò che fu la madonna a salvarlo – non io – quella volta che il dottore voleva sparargli per via della falsa murena. Non era credente, quindi chissà come gli venne in mente. Io non ricordo i particolari. Fu tutto così rapido che ancora mi meraviglio di come fossi stato capace di intervenire con tale risolutiva prontezza. Ma forse fui guidato proprio dalla madonna, non si può mai dire.

L’ultimo tratto così duro spezza le gambe. La prima volta che ci salii dovetti rinunciare a pochi metri dalla vetta. Senza conoscere bene il percorso, avrei rischiato l’oscurità, nel tempo necessario per il ritorno. In montagna, anche su montarozzi infine comodi come questo – poco meno di 2.000 metri – bisogna saper rinunciare anche molto vicino alla meta. Non è diverso, nella vita. Stavolta non avrei bisogno di rinunciare, anche se fosse vicino l’imbrunire. Questa, è un’ascesa speciale, questa.

Passo vicino alla statuina che raffigura la madonna, e forse per la prima volta la guardo in faccia: né ammonitrice né incoraggiante. Piuttosto, ha un’espressione tra il triste e l’orgoglioso. Mi è più simpatica, così. Le sorrido e la saluto. Ansimo. Il cuore pompa esageratamente. Devo fermarmi, se non voglio che poi sia troppo difficile controllare la tachicardia.

Mi guardo intorno. Da qui il dirupo è proprio brutto. Non è per niente una buona posizione per stazionare. Volgo lo sguardo verso l’alto. Per fortuna so qual è l’esatta distanza della vetta, che da qui non si vede più. Il cuore ha ripreso il battito normalmente accelerato. Il respiro segue bene. Posso riprendere. Da adesso, senza soste fino a su.

Finalmente. La solita croce, stavolta di ferro e cemento, deturpa la cima. Poso lo zaino. Intorno è come sempre. Ogni volta l’immensità mi si riflette dentro, mettendo in movimento tutte le possibili, e sempre insufficienti, scale di misura emotive. Per qualcuno – più fortunato – è parte della propria natura. Io ho imparato, col tempo, a rinunciare – in questi momenti – all’opera di misurazione, confronto, classificazione, catalogazione delle distanze, degli oggetti, delle relazioni, cui il mio cervello spontaneamente si dedicherebbe, e a far entrare in me i colori, gli odori, il vento.

Dieci passi sotto alla punta ci sono due rocce che formano un riparo naturale. Ci stendo in mezzo la giacca a vento, sdrucita, dai polsi sbocconcellati, eppure in gamba. Una buona giacca. Mi slaccio gli scarponi. Sfilo i calzettoni. Le dita dei piedi, grate, giocano a suonare il pianoforte sulla roccia. Il maglione lo dispongo sopra allo zaino. No, prima devo aprire lo zaino e tirar fuori la busta con il mangiare, e il coltello. Ho conservato la mozzetta di mio padre. Sì, lo zaino potrà servire da poggiatesta, con il maglione sopra. Faccio scivolare le bretelle dalle spalle verso le braccia. Sbottono i pantaloni – sono di resistente stoffa militare – e li tiro giù. Li sfilo tirandoli dai piedi. Slaccio i bottoni della camicia di flanella country. Sono stato incerto fino all’ultimo se portarmi musica. Alla fine ho deciso per il no: sarebbe stata troppo difficile la scelta di un solo brano. Sbottono i polsini. La camicia è zuppa di sudore. La stendo, fermandola con un paio di sassi, sulla roccia più alta. Lo stesso faccio con la canottiera di lana. Le mutande. Sono nudo. Aria fresca e sole caldo sul mio corpo. Mi stendo nel tepore comodo del giaciglio che mi sono preparato. Le mani intrecciate sotto alla testa. Sono pronto. Il sole mi bacia. Appagamento e pienezza, senza nemmeno la voglia di gridarli, tanto fuoriescono da ogni pezzo di pelle. Le nuvole, lassù, cambiano forma di continuo. Rinuncio a fermare l’immagine del cielo. Non ho il privilegio di Broc, di avere vicino una persona che lo amava, ma sì, è un buon momento. Il momento giusto. Tiro fuori le salsicce essiccate, di quelle che il dottore ha assolutamente proibito, e con la mozzetta preparo bocconi della dimensione giusta per me.