Alle nove c’è ancora chiarore. Quasi le dispiace di dover tenere i mezzi fari accesi.
Sera d’agosto, l’auto che guida è silenziosa ma non abbastanza da far entrare la sinfonia di grilli che la accompagna lungo la strada tutta curve e saliscendi. Un astuccio nero, lungo, sul sedile del passeggero.
L’ha sempre preferita alla superstrada. Arriverebbe prima, ma le piace godersi questo senso di aspettativa misto a timore e, forse soprattutto, si perderebbe il digradare delle colline, il verde misto alle zolle rivoltate, i filari di viti basse del Sagrantino ornate di rose. Sa che stanno lì come ostaggi, ad annunciare per tempo, se arrivasse, una malattia della preziosa vigna, ma preferisce pensarle come un abbellimento gentile.
Sceglie un cd e lo fa partire.
Solo voce, una corda di chitarra, sullo sfondo una pianola “e mmò, dormi accussì, senza parlà … stu iorno, nasce ‘nsieme a te…”. Le salgono le lacrime ogni volta. Un uomo che ti ama, che ti guarda dormire, che aspetta vicino a te il giorno che nasce.
Pensa di meritarlo. Pensa che tutti ne abbiano diritto.
Rallenta, gode l’aria ormai fresca dai finestrini aperti, lascia che il corpo assecondi la musica. Pazienza se taglia qualche curva, sta tranquilla che a quest’ora, qui, a questa velocità, può anche permettersi di socchiudere gli occhi per qualche istante.
Il rombo cupo e potente – inconfondibile – che la fa sobbalzare e rimettere in sesto, disciplinata, sulla sua destra, annuncia l’apparire, da dietro la prossima curva, di una Ducati.
Quando si incrociano è sorpresa: si aspetta una guaina di pelle nera, di quelle serie, e invece jeans e maglietta bianca sormontati da un ridicolo caschetto giallo da motorino. Bah. Certa gente non si merita certe fortune.
Non manca molto. Le gira intorno, e dentro, quel certo turbamento misto a friccicarino, eppure si sente singolarmente tranquilla. Accarezza la custodia del flauto sul sedile di fianco. La vallata si apre e, da adesso, solo discesa.
Ora il rombo della Ducati viene da dietro. Che cosa significa? Chiude i finestrini, apre l’aria condizionata, assume l’assetto di guida di chi adesso vuole arrivare prima possibile e comincia a prendere le curve alla sportiva scalando qualche marcia. Alla seconda curva il faro della Ducati sta piantato sullo specchietto retrovisore e lampeggia.
‘Azzo vuoi? Passerai quando potrai, vedi di non rompere. Sei lo stesso di prima, ma non andavi dall’altra parte? Che palle. Ok, passa e vattene.
La sequenza le è rimasta impressa con precisione, e così il racconto che fa ai carabinieri – sono arrivati in dieci minuti, non c’è che dire – è preciso, circostanziato, anche se il medico ha consentito solo cinque minuti, dato lo stato di shock.

* * * * *

— Mentre mi superava si è sollevato dal manubrio e ha allargato le braccia. Guardava verso di me ma che potevo vedere, con il casco? Si è messo davanti a far sculettare la moto, ha rallentato come se volesse farmi fermare e poi all’improvviso ha accelerato con violenza, ha preso la curva larga e, quando l’ha stretta, la ruota di dietro se n’è andata verso l’esterno della strada, la Ducati si è impennata e il pilota è volato addosso al cipresso sul ciglio. L’ho visto in aria con le braccia che era come se nuotassero controcorrente. Si è piantato a testa in giù alla base del tronco e lì è rimasto immobile. Mi sono fermata, ho chiamato voi. Non ho avuto il coraggio di avvicinarmi. Avevo paura di vederlo morto, e poi avevo paura di fare qualche danno se l’avessi mosso malamente.
— È vero, la t-shirt mi ha toccato in qualcosa di familiare ma no, non è possibile che fosse Vincenzo. Mio marito non ha una Ducati.

* * * * *

— Ha fatto una telefonata, ha chiuso, ha dato uno sguardo al motorino che gli avevo appena smontato, ha bestemmiato e mi ha chiesto la moto. Brigadiere, presterei più volentieri mia moglie – si fa per dire, eh – ma Vincenzo è un fratello, per me. Vuole sapere se la telefonata l’ha fatta lui o se l’ha ricevuta? Non mi ricordo di aver sentito squillare ma può essere pure. Come dice, se era proprio una bestemmia? Cominciava per “porco”…
E mo’ vuole sapere se porco o porca chissà che cambia se era porcatroia o porcoddio.
— … poi non mi ricordo. Per essere preciso, brigadiere, non me l’ha proprio chiesta: si è preso il casco con cui era venuto…
Glielo dico che se l’è messo senza allacciarlo? Meglio di no
— … è montato sulla Ducati e ha messo in moto.
— Le chiavi? Si, …
Ma insomma, sto nella mia officina, che domande sono?
— … stavano attaccate. Non gli ho detto sì, ma nemmeno no, è bastato uno sguardo. Gli avessi detto no, adesso sarebbe ancora vivo, porco cazzo!
— Va bene brigadiere modero il linguaggio ma adesso me ne posso andare?
— Che vuole sapere? Come erano i rapporti con la moglie? In questo era riservato, si scherzava si giocava ma su Dora bisognava pure stare attenti a fare battute che pigliava subito d’aceto…
— Se era geloso? Come tutti, no? Normale. Si, io sono… ero molto amico di Vincenzo, giocavamo a calcetto, qualche volta andavamo a caccia, ma dei rapporti con la moglie non mi parlava e comunque si volevano bene, si vedeva.
— No. Adesso posso andare? Sa, c’è la champions…

* * * * *

— Signora le chiedo scusa se in un periodo così doloroso per lei debbo rivolgerle ancora qualche altra domanda.
Così ttoloroso… qualche altcra ttomanda: il tenentino è compito e cerca di mascherare sotto un buon italiano l’inconfondibile accento calabrese.
Dora – jeans e maglietta nera – siede, scomoda, sulla sedia di legno tonda, con il risvolto segagambe, della caserma dei carabinieri. Palazzina moderna e arredamento da modernariato. Il pallore combatte con l’abbronzatura e gli occhi verdi, che il tenente si sarebbe aspettato spenti e che, invece, lo bucano.
Non ha cambiato posizione. Non ha mosso un muscolo del viso. Aspetta.
— Lei conosce tale signora Leonardi Cinzia?
— Sì.
— In che rapporti siete?
— Non capisco il senso di questa domanda. Vuole spiegarsi meglio, tenente?
Se è stizzita, questo non appare né dall’espressione del viso né dalla postura.
— Comunque: una volta, forse due, saremo usciti insieme. In quattro, intendo.
Poi aggiunge, tante volte “in quattro” apparisse troppo generico al tenente:
— Mio marito, io, Leonardi Cinzia e suo marito.
— Mi scusi signora, è il mio lavoro, a volte è spiacevole, lo capisco.
Il tenentino è diventato rosso.
— Lei ha un’idea del motivo per cui la signora Leonardi Cinzia telefonasse al suo purtroppo defunto marito, la sera in cui morì?
— Scusi, tenente, perché non lo chiede direttamente alla signora Leonardi Cinzia?
Il tenentino è agli inizi. Finora ha trattato delinquentelli ai quali dà del tu e anche qualche scappellotto se non rispondono a tono.
— Sì, ha ragione, glielo chiederò. Volevo sapere se… ma lei se n’è fatta un’idea?
— E come avrei potuto farmene un’idea? Me lo sta dicendo lei di questa telefonata. E poi che c’entra? Ma lei mi ha fatto venire qui, una settimana dopo che ho perso il marito, per chiedermi di Leonardi Cinzia? Senta, io non ne so molto di leggi, ma adesso sono molto stanca perciò mi alzo e me ne vado e lei faccia un po’ quello che vuole.
Dora fa esattamente quanto ha dichiarato. Fa un cenno che potrebbe essere di saluto ma non è detto, si alza, se ne va.
— Signora, la prego…
Il tenentino butta un occhio verso il brigadiere che sta battendo a macchina il verbale e che ridacchia sotto ai baffi e aggiunge, per mantenere una parvenza di autorità:
— Comunque, questo non è un interrogatorio formale e lei è libera di andare quando vuole quindi vada, vada pure, si accomodi.
Quella sta già scendendo le scale, bofonchia un mavvaffanculo che stride con l’aspetto fine, mentre il tenentino tira fuori il foglio dalla macchina da scrivere, fa per appallottolarlo, poi ci ripensa e ordina al brigadiere metta agli atti brigadiè, poi vedremo, non si sa mai.

* * * * *

— Dice che lei andava verso Amelinda in macchina e lui verso Montegiglio in moto.
— E allora?
— Allora la casa ce l’hanno a Montegiglio, lui tornava a casa, e lei che ci andava a fare ad Amelinda?
— Se pure stava sulla strada per Amelinda non significa per forza che andasse proprio ad Amelinda.
— A Ortignano, allora?
— Ma che ne so!
— Gliel’avranno chiesto, no?
— Chi glielo dovrebbe aver chiesto?
— Come chi… i carabinieri, no?
— Ma che c’entra?
— C’entra, c’entra…
L’ultimo ha parlato con aria saputa. Sono in cinque, sei, nell’intervallo dell’assolata briscola pomeridiana, sul bel piazzale di Acquatonda, sotto agli ombrelloni del bar.
— Dice che sì è incazzata quando il tenente le ha chiesto della Cinzia.
— Dice, dice… ma chi lo dice? Ma la piantate? Un po’ di rispetto. E allora!
— Rispetto, rispetto… e quel povero Vincenzo, allora?
— Allora?
— Dice che è montato sulla moto dell’Armando come una furia.
— Magari andava di fretta.
— Lo sanno tutti che l’Armando è geloso più della moto che della moglie, e se Vincenzo l’ha presa…
— Ma chi è ‘sta Cinzia?
— Una di Torquato. Erano amici.
— Amici chi?
— La Cinzia e Vincenzo, ma era una storia passata. Per far vedere che era finita una volta sono usciti tutti insieme con pure il marito della Cinzia. Ma una volta sola, eh!
— Ma la volete piantare di avvelenare l’aria! La vuoi fare finita?
— E che avrò detto mai! Lo sanno tutti, mica è un segreto, era quando lavoravano tutti e due alle acque, che c’è di male? Mica erano sposati, allora!
— Allora, no.
Il saputo interviene poco, ma quando interviene va diritto allo scopo. Ha rinforzato “allora”, ed ha aggiunto “no” dopo una pausa studiatamente lunga. La faccia, poi…
— Mi sono stufato di questo tavolo di pettegoli. Giochiamo o me ne vado. Però una curiosità ce l’ho pure io: se il Vincenzo andava verso Montegiglio, com’è che l’albero l’ha preso in direzione di Amelinda?
— È una cosa che si sa: ha visto la macchina della moglie ed è tornato indietro.
— E perché sarebbe tornato indietro?
E questo è colui che voleva giocare a briscola o andarsene.
Sono due mesi che le ipotesi sulle stranezze della morte del Vincenzo riempiono le giornate dei buoni cittadini del circondario.
È una zona di segreti, di eventi misteriosi, di maghi, di donne che una volta al mese si riuniscono in luoghi che si dice in passato fossero dedicati ai sabbah, di professionisti e imprenditori che si incontrano per leggere insieme poeti latini e assegnare appalti e finanziamenti europei.
Le cose semplici, normali, da queste parti piacciono poco. Risultano poco credibili.

* * * * *

— Hai portato i girasoli? Bravo! Ecco, mettili lì nell’orcio, per favore. Stanno bene, vero? Anche l’uva da vino? Perfetto, così la mettiamo sul tavolo lungo del buffet, alternata alle melette. Tutta produzione delle nostre terre.
È una collinetta a prato inglese. A circa metà sta una bella solida casa su due piani. Sulla parte più alta una piscina a pelo d’erba e, a fianco, una specie di gazebo allungato, in legno, con un piccolo spazio centrale – chiuso da ambo i lati da vetri scorrevoli – dove alcuni personaggi si aggirano tra fili, amplificatori, un violino, un flauto, un piano elettrico, una chitarra classica, luci da disporre in modo che la faccia dell’attore sia illuminata correttamente.
Manca poco all’evento. Una grande tensostruttura bianca ripara file ordinate di sedie bianche rivolte verso il gazebo dove i musicisti si stanno preparando.
— Dora perché fai così? Che avrei dovuto fare?
— Non me ne frega niente, io non suono.
— A mia madre l’ho detto che era meglio di no, e aveva pure capito – senza nemmeno chiedere niente, sai quanto è discreta! – ma come potevo impedirle di invitare i genitori, lo sai pure tu quanto sono amici!
Dora stringe il flauto traverso d’oro come se stesse per spezzare una matita. Gli altri, discreti, si sono spostati nell’angolo opposto. Se ne stacca Francesco – alto, con la maschera tragica dello chançonnier napoletano – che prende sottobraccio Vincenzo e gli dice adesso è meglio se vai tra gli invitati, provo a parlarci io con Dora, d’accordo?
Vincenzo non chiede di meglio. Tenta una carezza sui capelli di Dora, che la respinge con un gesto brusco della testa, ed esce. Francesco si accuccia vicino al pouf su cui sta accartocciata Dora e parlottano fitto fitto per un po’. La voce di Francesco è suadente, poi severa.
Alla fine funziona. Doria soffia nello strumento un incanto di fauno. Non è nel programma di stasera. Da sempre, suonare Ravel la rilassa e le dà forza.
Qualcuno ancora si aggira quando Francesco presenta la serata di beneficenza, ringrazia tutti i presenti e soprattutto la famiglia Cardarelli che ha messo a disposizione la propria bella tenuta. Tutti ormai hanno preso posto. Si alternano una canzone napoletana, un brano di musica classica, una poesia.
Dopo una mezz’ora, la maggior parte degli invitati sono rimasti in ascolto attento, disciplinati e compiti. Altri circolano per il prato, a scoprire nuovi punti di ascolto, a mixare con i grilli, a guardare la via lattea al riparo dalle lampade, a godersi la serata di fresca estate, ad intrecciare affari, a flirtare.
Dora suona con il giovane – un vero talento – chitarrista che la guarda adorante e l’incontro degli strumenti è perfetto.
Francesco passa dal drammatico al delicato con la stessa passione e la stessa tenerezza che lo fanno così amare dai cerebrolesi che assiste, nella sua attività professionale – il canto, per lui, è solo un piacere – presso il centro a favore del quale è stata organizzata la serata.
Cinzia è tra chi si aggira ai margini del parco, lungo le siepi di rosmarino e salvia e lavanda, ci strofina le mani e se le porta al naso e le stelle e i piedi nudi sull’erbetta ed è contenta di esserci e di starci bene. Non ha alcuna intenzione di riaprire vecchie ferite.
Il flauto di Dora amoreggia apertamente con la chitarra – i musicisti hanno possibilità relazionali inarrivabili a molti – ed appare in gran forma.
Vincenzo è stranito, non si capacita. Si fuma una bella sigaretta.
Applausi per tutti, alla fine. Soprattutto per Francesco, che ha trascinato anche i nuovi ricchi, per i quali la rispettabilità sta nel non scomporsi, nella tamurriata finale e nell’immancabile funiculì funiculà iamme iamme iammeiammeià. Gli artisti brindano prima tra di loro poi si mischiamo agli ospiti.
Stasera, qualcuno darà un appuntamento. Domani, qualcuno lo mancherà.